Il valore metaforico del sintomo

La pratica clinica con le persone spesso porta ad incontrare storie in cui i sintomi fisici hanno un loro valore metaforico che non deve essere perso nel processo di conoscenza di sé.
In genere però nella nostra cultura siamo portati a pensare che un sintomo è qualcosa da eliminare, soprattutto se ci crea disagi nella vita quotidiana a prescindere da cosa lo ha scaturito, attraverso l’intervento di un clinico.
Se non sussistono cause organiche che generano manifestazioni acute, o se si tratta di uno stato di malessere cronicizzato con cui abbiamo imparato a convivere dopo averle provate tutte, forse un’analisi del tipo di sintomatologia, delle ricadute sullo stile di vita e sulle relazioni, del momento in cui si è sviluppato e del suo valore simbolico può aiutarci a comprendere ciò che ci succede, a dar nuovi significati attraverso al relazione terapeutica.
La nostra pratica professionale spesso ci porta a constatare che l’insorgenza di disagi personali o anche di semplici disturbi somatoformi, che non hanno base organica, hanno ricadute profonde sulle relazioni interpersonali e sulla vita delle persone. Ciò deve indurci ad indagare la funzione che un sintomo ha per l’individuo per i suoi familiari o le persone a lui o lei vicine.
Deve essere chiaro che un approccio serio deve prima di tutto poter escludere che sintomi fisici abbiano una qualsiasi base organica riconducibile alle condizioni mediche generali, o che debba essere trattata farmacologicamente.
Tuttavia chi di noi non ha sperimentato l’insorgenza ciclica o sporadica di alcuni malesseri fisici non collegati a stati di salute compromessi o cause organiche evidenti o accertate? In questi casi è opportuno prendere in considerazione che il nostro corpo sta probabilmente cercando di riadattarsi o gestire un disagio che probabilmente ha una causa più in aspetti emotivi e relazionali, che corporei.
Ne sono esempi chiari i momenti di impasse che insorgono in giovani adulti alla vigilia del momento di costruirsi un futuro fuori da casa, prima di cercare un lavoro o di concludere un corso di studi o in corrispondenza con ciò, si tratta spesso di sintomatologie che bloccano lo svincolo, immobilizzano o causano su di sé l’attenzione di altri familiari, come ad esempio i disturbi di ansia e gli attacchi di panico.
Le domande retrostanti e inconsapevoli potrebbe essere: “Cosa può succedere alla mia famiglia se io me ne vado?”, “Sarò all’altezza delle aspettative? Riuscirò a stare al passo con le richieste del mondo?”.
Più di una volta nell’indagine terapeutica degli aspetti di vita si scopre che tra gli effetti secondari dello sviluppo di una sintomatologia, ci sono equilibri emotivi e relazionali che se modificati possono essere percepiti come minacciosi, è’ chiaro che questi interrogativi sono in genere latenti e possono essere resi manifesti a tempo debito, in un contesto terapeutico, dove sia possibile esplicare appunto la funzione che il sintomo porta con sé.
Altri esempi ne sono alcuni comportamenti “problema” nei bambini e negli adolescenti, che possono avere l’effetto, o la funzione di catalizzare l’attenzione degli adulti su di sé e distoglierli da altre problematiche personali o coniugali.
Ecco che il sintomo, quando non connesso a cause organiche, si delinea come un vettore di messaggi personali o relazionali.
Ancor più affascinante nel percorso terapeutico è soffermarsi ad analizzare il valore metaforico di un sintomo nelle rappresentazioni profonde ed inconsapevoli di ognuno: talvolta lo sviluppo di obesità piuttosto che di anoressia, si lega alla necessità di essere visti piuttosto che di scomparire agli occhi di qualcuno di caro.
Ovvero la rappresentazione personale e profonda che facciamo della realtà attraverso simboli ed immagini propri di ognuno e che cercano di essere resi manifesti nel percorso terapeutico, ha una sua logica espressiva propria di ognuno e basata su una personale ed unica interpretazione del mondo e dei suoi significati.
Il manifestarsi di un sintomo o di un disagio può essere analizzato non solo per gli effetti che scaturisce nell’ambiente e nelle persone intorno a noi, ma anche nel valore metaforico che ha quel dato stato personale con i suoi effetti fisici. La personale e soggettiva lettura del mondo, di sé e delle persone, frutto di esperienze irripetibili e proprie per ognuno, inevitabilmente porta alla creazione di immagini e significati interni e caratteristici per ciascuno di noi, ed anche lo scaturirsi di un sintomo piuttosto che di un altro può avere una sua coerenza con le rappresentazioni mentali recondite di ognuno.
Ecco che il lavoro in psicoterapia dà la possibilità di portare alla luce il valore simbolico e metaforico di ciò e se necessario ridurne l’effetto negativo sulla vita.
L’uso della metafora in psicoterapia è tutt’altro che innovativo, la necessità di calarsi del modo della persona con cui si interagisce da parte del terapeuta, attraverso l’interpretazione del linguaggio o dei sogni risale a Freud; Aristotele aveva sottolineato l’aspetto trasgressivo della metafora, in grado di dare ad un oggetto il nome di un altro estendendone così i confini (Aristotele “Poetica”).
Ed è proprio in questa estensione dei confini, nel coraggio di ammettere che vi sia un significato latente dietro ciò che appare, che la relazione terapeuta- paziente si esplica verso la ri-scoperta o ri-definizione del proprio mondo interno, in una più armonica concezione di sé e degli altri.
Il disvelamento del significato e della funzione di un sintomo permette di giungere ad una maggior consapevolezza rispetto a se stessi ed al proprio modo di funzionare, depotenziando gli effetti di stati emotivi interni che a volte hanno la necessità di farsi spazio attraverso il corpo, o prendendo confidenza con loro. Così alcune manifestazioni somatiche possono essere accolte come un messaggio dal nostro corpo rispetto a stati di tensione, un messaggio che può avere una sua simbologia.
Non di rado nel processo terapeutico si scopre quanto alcuni mal di schiena si associno a pesi emotivi e relazionali che ci sentiamo costretti a trasportare, mentre altri disturbi gastroenterici alla necessità di buttar fuori, sfogarsi, vomitare o al contrario trattenere dentro di sé ciò che ingurgitiamo anche emotivamente, oppure persone tendenti alla coartazione emotiva, al controllo spasmodico di sé e degli eventi manifestino incontrollate eruzioni cutanee.
E’ di nuovo necessario ricordare che una buona pratica terapeutica deve agire dopo aver escluso fattori organici, ed è anche importante sottolineare che nessuna pratica magica o misteriosa in grado di liberare dai sintomi si svolge in un buon setting terapeutico. Lo scopo di queste semplici riflessioni è quello di aprire un dialogo onesto ed aperto con il nostro sé, che è fatto in buona parte anche di corpo, che attraverso il corpo impara, sente, comunica, e dal quale può ricevere messaggi in termini di benessere o malessere attraverso stati sintomatici cronici o acuti, che possono essere spunti di riflessione sui propri bisogni e le proprie fragilità.